Far contenti i mariti.
Vi pare poco?
Il pensiero può sembrare desueto, ma ammesso che lo sia veramente, non è stato sempre così.
Nel 1932 i fratelli Bertozzi, solida famiglia borghese di quella sorta di patria elettiva del pomodoro che è Parma, intuiscono il futuro e capiscono che va bene fare passate e conserve, ma quello che manca e che invece sarà sempre più richiesto dal mercato è qualcosa di diverso.
Nasce così la Althea che, dopo un primo rodaggio e qualche sperimentazione, nel 1937 lancia sul mercato il Sugòro; nell’Italia che solo da qualche mese è uscita dalle sanzioni economiche, irrompe così il primo sugo pronto.
La rivoluzione dei consumi è ancora molto al di là da venire, ma sono sempre le avanguardie che fanno la storia.
La filosofia del sugo pronto è quella di far risparmiare del tempo alla donna che si immagina per amore o convenzione vocata alla cucina, tempo che in quegli anni è un fattore della comunicazione assolutamente innovativo e che diventerà una leva del linguaggio pubblicitario solamente a partire dalla metà degli anni cinquanta, seguendo passo passo il progressivo affrancamento della donna dal tempo domestico.
Il tempo domestico degli anni del boom economico, però, ha i suoi ritmi e i suoi attori. Il principino di casa, il primo nato o l’ultimo in ordine di tempo, è sicuramente importante, così come è ovviamente importante la donna che ne scandisce la ritualità, ma su tutti si staglia una figura non discutibile, una sorta di demiurgo, artefice dell’universo domestico al quale tutti devono un rispetto che somiglia molto alla devozione: il marito.
Non sembri strano, quindi, che il marito sia stato per diversi anni icona protagonista della pubblicità che a quel tempo domestico si rivolgeva.
Far contenti i mariti.
La pubblicità del 1955 del Sugòro non solo è inequivocabile, ma sottolinea anche come farlo sia un piacere per la moglie perché, spiega bene il testo, quando il marito sorride a tavola vuol dire che è soddisfatto del buon pranzetto che Lei, Signora, ha saputo preparargli.
Farlo è facile e veloce, con Sugòro bastano cinque minuti.
La scena è intima, borghese, quasi da coppietta di sposini come l’uso del vezzeggiativo pranzetto lascia supporre.
Il marito torna a casa dopo una giornata in ufficio, è ben vestito, elegante con la sua cravatta regimental e trova non solo Lei, pronome rigorosamente maiuscolo, la Signora a cui si rivolge la pubblicità, altrettanto ben vestita e con acconciatura vista al cinema sulla testa di divissime come Jane Russel o Vivien Leigh o dell’astro nascente Elisabeth Taylor, ma la trova addirittura con l’abbondante piatto di pasta al sugo, pronto per essere scambiato con il casto bacio sulla fronte.
Nella pubblicità della margarina Gradina del 1957 la scena è invece post prandiale.
Lui, il marito, anche in questo caso elegante nel suo gessato di cui ha tolto solo la giacca, mentre si appresta a sfogliare il giornale rilassato dopo il pranzo, rivolgendosi alla moglie in versione da sbarazzo della tavola, annuncia la sentenza inappellabile: brava avevi ragione…ho pranzato bene con Gradina.
La sua soddisfazione è evidente.
Anche in questo caso la scena ricalca un modello di vita borghese; marito impiegato, magari in banca, moglie casalinga in una moderna casa di città dove, come scoviamo nel riquadro dedicato alla cucina, il gas è a presa diretta, cosa non proprio così comune al tempo, la figlia è unica e, visto che appare già grandicella, probabilmente lo rimarrà anticipando di molto una composizione familiare che statisticamente apparterrà agli anni settanta.
Anche in questo caso tutto ruota intorno alla soddisfazione del marito, per il quale l’uso della margarina Gradina ha consentito di preparare piatti all’altezza della situazione.
Nella pubblicità del 1958, invece, sempre Gradina ci porta in un’ambientazione di famiglia più popolare; il marito è scamiciato, la scena è rassicurante, la moglie indossa ancora il grembiule da cucina e ha appena portato a tavola la pentola, probabilmente con dentro una zuppa a giudicare dal mestolo anche se a tavola non compaiono cucchiai.
Il pay off …brava avevi ragione, si mangia bene con Gradina…si spiega con il fatto che l’uso della margarina in un’Italia in cui il burro appartiene da sempre alla tradizione gastronomica non era poi così scontato, motivo per il quale il testo chiosa rivolgendosi alla moglie… cucinate con Gradina e vedete come faranno onore al pranzetto da voi preparato, con il vezzeggiativo pranzetto in questo caso declinato sul rassicurante set da famiglia numerosa e non da coppietta.
Nel 1957 la mano maestra di sogni di Giulio Bartoletti riproduce stilemi illuminanti sulla copertina di Grand Hotel.
Il gessato del marito, simbolo ricorrente per un’iconografia dell’uomo in carriera; il pollo, o forse per dimensione un tacchino, in primo piano, intero, simbolo per eccellenza dell’abbondanza alimentare degli anni in cui la carne bovina era ancora un lusso; lei, la sposina perfetta come recita la copertina, ovvero la moglie che prepara e fa trovare il mangiare pronto al marito tutto dedito al lavoro e dal quale dipende il futuro della nascente famiglia.
Un obbligo? Assolutamente no, siamo nel regno del piacere assoluto.
Pura estasi familiare è invece la pubblicità della Barilla del 1960.
È l’ora più importante della giornata. Ci siamo tutti. La nostra famiglia è molto unita. Non aspiriamo a grandi cose. Siamo felici e un buon piatto di pasta Barilla rallegra la nostra tavola. Sappiamo che è un cibo genuino, molto nutriente, fresco, fragrante, gustoso, assolutamente sicuro perché garantito dalla tipica confezione. E ci piace proprio tanto.
Insomma, questa famiglia è talmente unita e felice che a tavola mangia solo e da solo il marito, mentre la moglie adorante alle sue spalle cerca di scorgere estasiata il suo primo boccone e i pargoli in crescita gli guardano nel piatto con evidente appetito chissà quando da soddisfare.
Ancora una volta, tutto l’universo domestico è ordinato intorno a lui, il marito.
Scena molto simile la troviamo nella pubblicità dell’Idrolitina del 1963.
Ancora un marito apparecchiato che mangia da solo, anzi lui ha già mangiato, il piatto è vuoto, i bicchieri sono doppi quasi da grande occasione, contravvenendo alle regole la forchetta è posata sulla tavola, la moglie premurosa e servizievole gli cinge le spalle e, forse per evitargli una successiva sonnolenza, gli versa nel vino l’acqua Idrolitina.
Qualche purista del vino potrebbe aver sobbalzato già allora, ma la scena si sposa con una certa tradizione popolare che al tempo gradiva allungare il vino, spesso del contadino, persino con della gazzosa.
Insomma, adorati, serviti e riveriti questi mariti, chissà perché lasciati spesso a mangiare da soli, sono comunque il centro del mondo.
Anzi, sono, il SIGNOR MARITO, maiuscolo nella pubblicità del Gran Ragù Star, al quale la mogliettina si rivolge chiedendogli cosa desidera nascondendo dietro le spalle e in favore di lettore la sua bacchetta magica per soddisfarlo, il Gran Ragù appunto, condimento pronto che promette meraviglie di gusto e sapore.
Ma attenzione, però.
I tempi stanno per cambiare.
L’avvisaglia è sempre del 1963 e ce la mostra ancora una volta una copertina di Grand Hotel.
Guardate bene la scena.
La moglie porta in tavola qualcosa che somiglia a una pasta al sugo, pasta corta o chissà.
La tavola è borghese, Grand Hotel dispensa sogni e non può essere diversamente, ma i sogni nell’Italia del boom economico sono, o sembrano, alla portata di tutti.
La tavola è borghese, appunto, i bicchieri doppi, il vino servito in caraffa, tovaglia bianca candida, probabilmente di Fiandra, e non di tessuto grossolano a quadroni rossi.
È domenica; non piegato dalle esigenze di cassetta commerciale e diritti tv, salvo rare eccezioni il calcio si giocherà ancora a lungo solamente di domenica.
Nel 1961, sull’onda del successo delle trasmissioni televisive olimpiche, la RAI inizia a trasmettere in differita, nel secondo pomeriggio, un tempo di una partita di serie A.
A rigore di ricostruzione dovremmo quindi pensare che ci troviamo in prossimità della cena, ma sulle copertine di Grand Hotel il tempo è un’astrazione.
Osserviamo ancora e troviamo lui, il marito, sempre vestito di tutto punto, completo grigio, camicia bianca, accanto ha il figlio, età scolare, dieci, undici anni, pantaloni corti, calzettone e mocassino, un combinato che oggi, nell’tempo imperante delle sneakers, sarebbe improponibile; tutti e due sono tifosi, le espressioni sono diverse, non tifano la stessa squadra.
Nessuno, però, è il vero protagonista della scena; non la moglie, non il marito, non il figlio.
Il protagonista vero è il televisore, annunciato oggetto del desiderio che nel 1963 registra 643.000 abbonati RAI, molti dei quali però ad uso collettivo dentro bar, circoli e ristoranti.
Eccolo il tempo che cambia.
Il televisore acquista centralità in famiglia, ne cambia i ritmi e i tempi, vi introduce modelli e consumi, si passa dalla vecchia regola del non si parla quando si mangia al fare silenzio per ascoltare il programma.
È una rivoluzione, silenziosa, ma che come ogni rivoluzione rompe gli schemi e questa, soprattutto, cambia il costume.
E non sarà il diritto di famiglia a innovare gli equilibri nelle case degli italiani.
Sarà il televisore, o meglio la televisione con i suoi contenuti.
Il marito, come figura demiurga, andrà a perdere rilevanza, uscirà dalle leve pubblicitarie e nel 1968, con il phisique du role di Franco Cerri, finirà ammollo per sciogliere lo sporco impossibile, anche l’unto di cucina, nel Carosello del detersivo Bio Presto.
Tempus fugit e la storia dispersa dei mariti in tavola è stata velocissima.
Leggi anche
Luisa Spagnoli, una storia lunga un Bacio
Lagostina, la Linea e il Novecento