Musco di Palazzone, racconto di una memoria atavica
“E’ una luna da vigna. Da bambino credevo che i grappoli d’uva li faccia e li maturi la luna….
Ora il brivido mi aveva lasciato e la luna col suo sapore di vendemmia ci guardava entrambi come una creatura che conoscevo e ritrovavo”. Feria d’Agosto, 1946.
Credo che l’ Orvieto, più di altri, necessiti di raccontare la sua storia. Di quel crepitio di braci nascoste dal carbone. Di un ardore celato.
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L’Orvieto è, senza dubbio, la punta di cristallo dei bianchi del centro Italia: preziosa e fragile.
Preziosa per la capacità di racchiudere in pochi centilitri la luminosità del sole che tocca queste terre. Preziosa per l’energia che dona a questi vini dopo qualche mese dall’imbottigliamento. Preziosa per l’eleganza che quei vini raggiungono dopo affinamenti decennali. Preziosa per la matrice geologica in grado di trasmettere prodotti così specifici; il fiume Paglia qui non è un semplice ricamo sulla cartina: esso delimita le due facce dell’Orvieto, finezza e austerità. Yin e Yang.
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Ma è fragile. Fragile per il depauperamento che l’immagine di questo vino ha subito negli anni. Fragile per un fazzoletto troppo esteso, tirato e lacerato oltre i confini di regione. Fragile per un disciplinare troppo incline al “migliorativo” in termini di vitigni, a discapito dell’autoctono. E fragile perché quasi il 94% dell’imbottigliamento avviene fuori regione. Il Musco di Palazzone è atarassico e giurassico a questi concetti. Lo è nella forma e nella sostanza. Lo è per antonomasia.
Musco di Palazzone, racconto di una memoria atavica
E Palazzone non è nuovo all’atto di conservazione dell’identità originaria dei suoi vini. Il vino non necessita, come gli uomini, di nulla di nuovo; ne va semplicemente raccontata la storia. Va mantenuto uno sguardo attento sul passato e atti accorti sul presente. E in un territorio dove si fa vino da più di 2000 anni, nasce la necessità di applicare una forma di pacifica resistenza alle imposizioni massive, per mantenere viva la traccia originaria.
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Il Musco di Palazzone è il raccolto di una memoria atavica e di gesti antichi. Porta a galla i sapori di una volta, poiché cos’altro è il vino se non lo storico stoico di un territorio di fronte alle mode che si sono succedute. La raccolta è quella di un tempo che fu, in una vigna fatta di quella storica mescolanza casuale dei varietali autoctoni. Il Musco riporta in bottiglia la semplice giovialità della vendemmia. È enciclopedia storica narrata attraverso desuete pratiche di vinificazione: una pigiatura manuale così come la torchiatura.
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Fermentazioni senza lieviti selezionati; il riposo in quel legno abbandonato e dimenticato che è il castagno, e, prima della bottiglia, un affinamento con decantazione statica in damigiane di vetro. L’imbottigliamento e a “tiro di fiato” direttamente dalle damigiane, da cui, a caduta, si riversa direttamente in bottiglia. Gesti che non conoscono la fatica e che, come scrisse il Pavese delle prime righe ne “La luna e i falò”, non sono nemmeno lavoro. Di questi gesti è fatto il Musco.
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di Raffaele Marini