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Musco. Un salto avanti con lo sguardo al passato.

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Musco è una parola non contemplata nel vocabolario italiano. Ed allora… di cosa si tratta???

Jackson Pollock è un artista statunitense considerato uno dei maggiori esponenti dell’espressionismo astratto. Prima dell’astratto c’è stata la chiara definizione figurativa nei suoi dipinti. Poi è arrivata la ricerca della “forma pura”, allontanandosi sempre più da strumenti come cavalletto, tavolozza e pennello e preferendo invece strumenti ancestrali e casuali, oltre che quotidiani: muro e pavimento in sostituzione del cavalletto e il coltello in luogo del pennello.

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Una delle opere di Jackson Pollock esposto al Moma di New York

Musco. Un salto avanti con lo sguardo al passato.

All’anteprima dell’uscita di Musco ho visto in Giovanni Dubini qualcosa di Pollock. O per rimanere inerenti al mondo del vino, qualcosa di Gravner. Palazzone è senza ombra di dubbio la rivalsa dell’Orvieto; il messaggio che Giovanni manda da anni non è messianico, ma assolutamente tangibile: ha dimostrato le potenzialità di questo territorio con i suoi vini, tutti netti, chiari e taglienti. Ma il Musco è un’altra cosa. È la rappresentazione di un Orvieto che non c’è più. È la riconsegna di un territorio con la sua storia scandita da tempi e da modi ormai desueti.

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Veduta del territorio di Orvieto dalla collina di Palazzone

Con tutta probabilità il Musco è l’unico vino in Italia “avvenuto” senza l’utilizzo di energia elettrica: la pigiatrice è manuale; il torchio è quello che si utilizzava nelle famiglie contadine; non bastasse questo, il blend è quello dell’Orvieto delle origini: bandito il Grechetto, partecipano a questo vino Procanico al 50 %, Malvasia al 30 % e Verdello con un 20 %. Non c’è un assemblaggio dei vini, ma una creola in vigna, dove le viti si intervallano tra loro con un ritmo del tutto casuale, così come vuole la storia. Anche la vendemmia è manuale; le uve, pigiate e non diraspate, vengono messe a fermentare in tini di legno; la fermentazione è “autogestita”, nessun inoculo di lieviti selezionati; unica concessione fatta è per l’anidride solforosa, che si usa da tempi remoti.

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Musco, Palazzone. Credit photo: Inge Von Buggenum

Nessuna follatura; all’alzata del cappello di vinacce, il vino viene svinato e posto ad invecchiare in botti di castagno, legno di cui erano fatte le botti del passato ed oggi quasi introvabili. Se non ad Avellino, dove la meticolosa ricerca per questo progetto, ha condotto Giovanni Dubini a ritrovare un artigiano che lui definisce artista. Dopo circa un anno, con l’arrivo della nuova vendemmia, Musco viene messo ad affinare in damigiane di vetro, dove decanterà per precipitazione naturale. A Marzo altra svinatura, poi l’imbottigliamento nel Luglio successivo, effettuato a caduta dalle damigiane, dopo esser stato tirato dal tubo e fino a colmatura delle bottiglie. 1600 “Genius Loci” di questo Orvieto senza sconti, nato prima in vigna e poi in una vecchia grotta etrusca, di cui Orvieto è “agruvierato”. La stessa grotta che è stata la cantina in cui Giovanni vinificava da ragazzo col padre. Musco è il nome del loro primo vino, nel 1985.

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Il tappo in sughero di Musco.

Delle 1600 bottiglie, a volermi bene, ne ho assaggiate almeno cinque, tutte con una base solida, ma con sfumature diverse. Il colore carico – probabile concessione del castagno, oltre che del lieve contatto con le bucce – potrebbe indurre i non addetti a pensare alla moda degli orange wines, che ha coinvolto il pubblico negli ultimi 10/15 anni. In questi vini però, l’ossidazione è spesso un fendente trasversale in grado obnubilare le sensazioni più sottili, lasciando poco spazio alla diversità territoriale di cui tanto ci piace parlare. Di questa trapunta tanto calda quanto coprente, nel Musco non c’è traccia. Al naso è un dipinto a tinte gialle: da bottiglia a bottiglia si passa dalle note di alveare – polline, cera, miele – alla frutta matura; dalle scorze di limoni secche e candite, si declina su uno sfondo di piccoli frutti rossi.

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Musco nel calice.

In bocca l’entrata è morbida, lontana dalla sapida secchezza a cui Palazzone ci ha abituato con i suoi vini; il probabile lascito di zuccheri è sicuramente concessione dei lieviti indigeni. Musco chiude il palato in due tempi: il volume iniziale, avvolgente e “terragno”, lascia spazio ad un finale lievemente amarognolo e caldo; la dorsale sembra percorsa da un’acida sapidità. Pur non essendo un vino stilizzato, la beva è irresistibile: verrebbe da lasciare il calice per attaccarsi alla bottiglia. Il Musco è emotivo e tecnico. E’ il probabile duello di un vino poetico, ma impresso da una cultura solida quanto antica. Saltando avanti, con lo sguardo indietro, c’è il rischio di farsi male… a meno che non si conosca perfettamente il suolo dove si approderà con i piedi.

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Veduta delle vigne di Palazzone, da cui è “tratto” Musco.

Fare vini “ancestrali” senza difetti e donando il luogo è possibile. Giovanni Dubini sembra aver vinto anche l’ennesima sfida.

di Raffaele Marini






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