Tre volte cinico. L’arte del vino naturale di Cascina degli Ulivi.
di Raffaele Marini
“Il compito attuale dell’arte è di introdurre caos nell’ordine.” Theodor Adorno.
Il concetto di speranza, figlio della crisi prima e della recessione poi, ha contribuito ad estendere il cimitero delle parole, tumulando un’ importante corrente filosofica greca e riesumandola odiernamente in una rivisitazione prettamente denigratoria e come attacco bieco.
La scuola filosofica cinica e la sua aggettivazione, cinico appunto, è impiegata oggi in via ingenuamente offensiva. In una società, questa, il cui pensiero è fagocitato dalla catena alimentare del consumismo che sbrana gli stessi consumati-consumatori, la totale assenza di autocritica trova nel pietismo l’unico catalizzatore di emozioni. Come in un contenitore stagno sovrasaturo di gas lisergico, ci carica di un’empatia incontrollata che ci fa schierare con la massa armata di forconi, ci fa ergere il palo sotto il quale prepariamo il rogo, per poi accendere il fuoco e farci ritrovare, sistematicamente, a piangere la vittima da noi arsa. Pietismo più empatia sono la miglior formula di chi, non in grado di attingere “all’onda feroce” del cinismo, si ferma alla mera speranza, additando con fare sentenzioso la lucidità.
I cinici promulgavano il mondo come unica patria per l’essere umano, puntellando la necessità per l’uomo di essere autarchico. Il vino, come tutte le opere artistiche, trova il suo riconoscimento attraverso i nostri sensi. E come arte segue la corrente del cinismo, alla base del vortice ascensionale che coinvolge contestazione, anarchia e appunto, arte, in un’amplesso che trascina quell’atto romantico e violento che è la rivoluzione.
Tre volte cinico. L’arte del vino naturale di Cascina degli Ulivi.
Asserire che un vino possa essere cinico è opera che non spetta a me. Sostengo invece, brandendo la tesi di autorevoli maestri, che se nel vino artista è il territorio e non certo il produttore, a quest’ultimo può essere attribuito di essere un cinico. Cinico se appartiene ad una “corrente artigianale” e, per questo, contesta quell’agricoltura convenzionale perpetrata dalla seconda metà del secolo scorso come unica Bibbia possibile. Cinico una seconda volta, se rispetta il virtuosismo a cui questa filosofia attinge “del vivere in accordo con la natura”, non castrando la creatività di un territorio ingozzandolo di chimica come un’oca da pâté. E cinico tre volte, se a questo si aggiunge l’idea di autosufficienza.
Stefano Bellotti di Cascina degli Ulivi, senza troppi svolazzi d’inchiostro, incarna il modello di produttore cinico. La sua azienda, di circa trenta ettari, è autarchica: si occupa di viticoltura, alleva bestiame e coltiva cereali. In questo concerto olistico, votato al naturale in tempi inaspettati, Stefano Bellotti dichiara: “La mia è resistenza tra le vigne, per difendere la biodiversità”. Questa frase rafforza il concetto di cinismo, in una sua forma di filosofia che potremmo definire “randagia” e che in passato gli è costato non pochi problemi rispetto al sistema organizzato e ugualizzante.
I suoi vini hanno mantenuto il pungiglione spezza inerzia del corretto a tutti i costi, che spesso sfocia nel piattume. Un impatto gustativo dunque poco consolatorio e di certo antagonista. Non soltanto per la connaturata espressione di elitarismo che il vino ha in sé; ma anche perché questi vini mantengono la loro natura di strumento educativo, schierati come sono su un risveglio dall’atrofia gustativa di tutti gli organi di senso. Sono vini lontani dall’immagine di vino-prostituta, che adempie al servizio di appagare i sensi senza lasciare dubbi. Lontani da un capitalismo che insegna ad esprimere il valore in proporzione al prezzo e ad una immediatezza rasserenante e priva di incertezze. Ma così la morte del mistero e della fascinazione che sono l’anima del vino, bussa inesorabile alla porta.
Fredda lucidità quindi nei vini di Cascina degli Ulivi, che, con passionale cinismo, rompono l’aridità della mediocrità. Questo loro reagire con costernazione all’oltraggio perpetrato da un approccio industriale, li ha spesso visti cadere nello stolido parallelo dell’accusa vino naturale-donna baffuta. Ma la rottura anarchica di questi vini è lontana anni luce dalle bambole gonfiabili che il sistema continua a proporre sotto la frivola dicitura “di facile beva”. Io sono per i vini cinici, semmai esistono; o comunque per quei vini, come il Filagnotti 2009 in bottiglie da un litro -né magnum né bottiglie quindi- dal contenuto difficilmente omologabile. Sono per quei produttori che non si rifugiano nella speranza, ma nell’impietosa, rivoluzionaria, lucida ricerca che porta all’unicità.
Con la “speranza” di un buon 2016, vi lascio una citazione cinica del maestro Mario Monicelli: “La speranza è una trappola inventata dai padroni… Mai avere la speranza: la speranza è…una cosa infame, inventata da chi comanda”.