Trieste e il cibo dell’Impero
Trieste è ciò che immagini, ma in un modo che non ti aspetti. Come tutte le città di mare è permeata dal respiro delle genti che sono approdate al porto nel corso di secoli lunghi millenni. Ma da città di confine, è il più riuscito amalgama mitteleuropeo realizzato in territorio italiano, arrivato impetuoso con i venti di Bora da nord-est, a plasmare una quotidianità fatta di eleganza viennese e di atmosfere asburgiche. Trieste è un melting-pot di lingue, consuetudini, sapori.
Una tradizione culinaria che abbraccia un territorio immenso, dal Danubio al mare, in una saga rocambolesca che coinvolge Istriani, Dalmati, Greci, Serbi, Austriaci, Ebrei sefarditi, Boemi, Ungheresi. A Trieste si cucina il gulash come a Budapest, gli gnocchi di susine come a Lubiana, i pedoci (e non vi azzardate a chiamarle cozze!) come a Rijeka. Le sue strade – quelle vie dei Torrenti che ricalcano i corsi d’acqua carsici interrati nel piano di espansione urbanistica che nel 1796 doveva rendere Trieste la “grande città dell’impero” – profumano di caffè e dolci figli della più nobile tradizione pasticcera viennese, eredità di quell’appartenenza asburgica che l’impero di Vienna ha concesso generoso.
I buffet di Trieste, antesignani dei moderni fast food
Vivere Trieste è un’esperienza che ti catapulta tra gli specchi dorati e il valzer della capitale austriaca o i marmi del Palazzo del Parlamento di Budapest, non a caso provenienti proprio dalle montagne del Carso, poste ad arco a nord della città. E non si può prescindere da tutto questo se si vuole capire l’anima di Trieste e dei Triestini, se si vuole decifrare il loro approccio alla vita.
Ma allo stesso modo non si può dire di conoscere Trieste se non ci si è seduti almeno una volta ad un tavolo dei loro buffet. Antesignani del moderno fast food, riuscirono a stregare anche Jacques Le Goff, lo storico francese che qualche anno fa lasciò un convegno accusando stanchezza e fu poi scoperto allo storico Buffet Da Pepi, ad addentare un panino con la porzina, insieme a Claudio Magris.
I buffet triestini nascono a inizio Ottocento, in pieno impero asburgico, di cui perpetuano l’imperturbabile convivialità; nonostante il nome, però, hanno poco a che fare con la tradizione francese del servirsi da soli.
Nei buffet triestini si va per partecipare al rito fondamentale del rebechin, lo spuntino concesso ad ogni ora del giorno e a base di maiale, in tutte le sue forme: le luganiche di Vienna e quelle di Cranno, la pancetta, il musetto, gli zampetti, lingua salmistrata e orecchie; tutto cotto a lungo nella caldaia e servite in un piatto unico con patate, foglie di cavolo fermentate nel sale e poi una corroborante grattugiata di rafano, “il nostro wasabi”, come dicono i Triestini.
Questa è la porzina, piatto tipico, spesso accompagnato da un bicchiere di vino del Collio o da una pinta di birra Dreher, triestina anch’essa, da gustare seduti ad uno dei piccoli tavoli del buffet, insieme a impiegati e operai in pausa pranzo o a turisti in cerca della vera anima di Trieste.
Una tipicità che non conosce classi sociali, provenienza geografica, estrazione culturale. Tutti prima o poi sono passati per un buffet, magari anche solo per assaggiare il liptauer, una morbida crema di formaggio, arricchita da acciughe, cipolla, paprika, senape, da gustare accompagnata da pane scuro, proprio come nella tradizione dell’impero.
I buffet di Trieste sono delle istituzioni, alcuni dei veri e propri monumenti, quasi come il Castello di Miramare. Da Pepi è il più antico della città, fondato nel 1897 da Pepi Klajnsic detto “Pepi S’ciavo”, Solveno e quindi “lo Slavo”. E da allora ha mantenuto immutata la sua capacità di essere un riferimento gastronomico, nonostante le abitudini alimentari siano cambiate e i nutrizionisti si dannino l’anima con “l’anatema” dei pasti equilibrati!
di Tamara Gori