Vini (In)Naturali e alimenti bio.
“Come un uomo appena nato, che ha di fronte solamente la natura,
che cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura.
Sempre libero e vitale fa l’amore come fosse un animale,
incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà“.
Giorgio Gaber
Mi piaceva definirmi libero, poi ne hanno fatto un quotidiano…
Ho una forma di claustrofobia per i contenitori stagni e le stanze troppo “attufate”.
Non sono mai stato tesserato a circoli, associazioni, confraternite e caccia e pesca vari.
Allo stesso modo anche per le congregazioni del vino. Da una parte i Naturali, dove la competizione per l’escalation alla babelica torre del Bio è fin troppo caotica e, paradossalmente, toglie naturalezza a quell’atto al contempo “santo e dilettevole”. Dall’altra parte l’industria. O, ancor più, i sostenitori dell’innaturalità del vino sempre e comunque, poiché esso è ineluttabile artificio dell’uomo.
Demonizzazioni e beatificazioni; da sempre il cavalcavia che sovrasta la critica. No ai solfiti aggiunti. Sì a chi pigia solo con i piedi. E tutto fa presto, da opera manuale, a divenire bussiness.
“Naturale” è quindi il nuovo virus del linguaggio.
Un’infezione propagata che ha indebolito anche i portatori sani di naturalità. Di fatto la storia del biologico ha pervaso tutto il comparto alimentare solo da pochi decenni. Quella dell’industria è immutabile da sempre.
Vini (In)Naturali e alimenti bio.
Per me il vino è un prodotto possibilmente naturale proprio perché fatto dall’uomo. Poiché concepire l’uomo come rigurgito della natura è un inganno ontologico. Ma l’oggetto del discorso qui è un altro.
Da diverso tempo c’è un dubbio periplo tra vignaioli e bevitori liberi, naturali e indipendenti. Qual’è la vera naturalità del vino? Soprattutto ora che il naso aguzzo dei grandi imprenditori del vino ha fiutato che l’aria è condizionata dal “naturale”. Ci troveremo di fronte una santeria enologica, pregando un naturale denaturato dall’industria?
Il concetto non è per nulla nuovo; la stessa domanda nasceva e nasce ancora col biologico legato ai generi alimentari. E’ quindi il caso di abbracciare il concetto e non la materia.
Il forte dubbio, legittimo quanto scontato, del “come faccio a fidarmi del biologico in termini di sicurezza e garanzia delle certificazioni”, è lo stesso che nasce di fronte al paracadute prima di un lancio forzato. Ma nel dubbio il paracadute comunque lo metti; non puoi confidare nella salvezza se salti senza.
Quindi, è meglio un vino (cibo) industriale “forzatamente-bio”, o uno industriale e basta? Io non avrei dubbi nell’optare per il primo.
Questa costatazione non smacchia di certo il fallimento delle certificazioni Bio e delle sue associazioni di categoria. Ma di fatto, come può il consumatore medio tutelarsi dall’inganno di ciò che è sano e di ciò che è legalmente mascherato da sano? La risposta è: non può.
Vini (In)Naturali e alimenti bio.
Il concetto è: “Più è forte l’onda d’urto, più lunga dovrà essere la riflessione che la attenuerà”. Ma di fatto non ci sarà alcuna riflessione. E non solo perché il pensiero non prevarrà, soffocato come è dall’esuberanza delle propensioni competitive del consumatore medio. Ma anche perché l’industria nell’appropriarsi della natura, della tradizione e delle sue opere, non crea nessuna onda d’urto; arriva di soppiatto, con camaleontica garbatezza e con le stesse vesti storiche della materia originaria.
Quindi nessun disturbo. Nessun urto. Nessuna riflessione.
Al consumatore medio in realtà, basterebbe acuire lo sguardo ogni volta che si trascina tra gli scaffali della Gdo. I pacchi dei biscotti patinati da favoleggianti “Mulini Candidi”, immersi tra dolci colline di campi di grano, sono ben lontani dai campi da cui realmente arrivano. Eppure l’inganno è lecito. O peggio legale. Al vino naturale accadrà la stessa cosa? Con ogni probabilità verrà inserito nello stesso ricettacolo. Perderà la sua anarchia nel momento stesso in cui questa sarà moltiplicata seriale, subendo ipso facto l’amputazione della sua eccezionalità.
E si cadrà nell’accogliente laguna della tolleranza distruttiva.
Eppure cerco conforto, un’attenuante consolatoria al disfacimento in atto. E penso: più saranno gli ettari rivolti al biologico, più saranno alte le possibilità di migliorare un ambiente compromesso.
Ora che il TTIP, per dirla con l’acume di Cibaria, è uscito dalla porta per entrare dalla finestra sotto altro nome.
Ora che il Presidente del Paese più potente al mondo se ne strafotte dell’ambiente e anzi.
Ora dovremo essere noi, consumatori medi, a scegliere cosa consumare, costringendo chi muove il pallottoliere globale ad essere il più lineare possibile con politiche agricole sane.
Vini (In)Naturali e alimenti bio.
L’unica via percorribile sarà quindi quella del WWW. No, non il Web Wide World, ma il Wood Web Wide: fluire in un circuito di collaborazione interconnesso con l’ambiente circostante, invece di contrarsi in una forma di “individualismo” capitalizzato. Connettersi con la natura.
Delirio romantico e lisergico? Forse. Ma le parole di Raghavendra Rao, direttore dell’Anthropological Survey of India, spiegano come i nativi primitivi di Nicobane e Andamane si fossero salvati dal disastro del maremoto dell’Oceano Indiano del 2004: “Queste tribù vivono in vicinanza con la natura ed è noto che fanno attenzione a segnali come il mutare delle grida lanciate dagli uccelli o il comportamento degli animali terrestri e marini”.
Tanto basta per capire quanto dovremmo ritornare ad ascoltare. A noi invece è sufficiente che un barattolo sia definito arte, per non farci più percepire il puzzo degli escrementi al suo interno.Lo tsunami del’industria potrà essere marginato solo da chi consuma e non da chi, da quella industria, è consumato.
di Raffaele Marini