di Fabrizio Mangoni
Ecco, ho di nuovo davanti a me il mio piatto preferito. Preferito in fondo è non dire niente; sono tante le pietanze che mi piacciono. E neanche posso dire che questo piatto alimenti una memoria particolare, della serie quei piatti come li faceva mia madre. È un po’ come le canzoni; hanno un tempo, un tempo che si ripete quando le ascolti e non ti porta solo la memoria di quando le hai ballate o di quando hai baciato una ragazza; ti versa nel cuore un miele complesso, fatto del rivivere un sapore in luoghi e condizioni differenti, ma che ti riporta lo stesso stato d’animo che si ripete uguale, ugualissimo. Almeno per me è così.
Ora ho ordinato il “Riso amaro”; sì, proprio il nome di un famoso film neorealista; ma il piatto ne è forse la più profonda interpretazione, riportando i conflitti della vita. Ecco che arriva sulla mia tavola; sono solo, con la gabbietta di un pettirosso che da qualche mese mi tiene compagnia. Una forma a ciambella a due colori: riso nero e riso bianco.
Riso amaro
La ricetta.
Può essere portato in tavola in due ciotole separate o impiattato come due cupolette di riso o a ciambella bicolore. Si tratta di un riso bianco e un riso Venere nero. Quello bianco ha un sapore tenue, leggermente dolce, con profumi appena speziati e sensualmente fluido. Avverti verdure dolci, e il profumo del macis e delle rose. Quello nero contiene un misto misterioso e sorprendente di sapori: dal peperone al pomodoro, dal grasso della pancetta al dolce della cipolla. E poi il forte piccante del gorgonzola, incrocia l’amaro del caffè e il conforto del cioccolato. Sul fondo ti sorprende la delicatezza dolce della melissa.
Quando l’ho assaggiata la prima volta? A San Francisco, nel ristorante di cucina toscana “Dal Guercio”. Il ristorante del fratello di Sonia, che sarebbe diventata la donna della mia vita. Eravamo studenti all’Università, lei faceva una specializzazione, io studiavo Letteratura; una sera in comitiva con altri amici ad un bar era scattato qualcosa tra noi. Molto più di un colpo di fulmine; un suo sorriso mi aveva aperto l’anima e vinto ogni ombra del mio cervello. Decidemmo di andare in un bar a Sausalito, così per cantare lì Sittin’on the dock of the Bay”; allora si facevano queste cose. Solo che avevamo solo tre macchine. Quattro amici montarono su una macchina e io e Sonia guidavamo da soli le nostre. Dentro di me pensavo che era tutta un’illusione, che solo io ero stato fulminato da un possibile quanto improbabile amore; il lato negativo che mi prendeva ogni tanto, galoppava nella mia testa. Ritrovai la macchina di Sonia a un semaforo. Scese e mi si parò davanti: sorridente, biondissima, con un vestito verde che le stringeva il petto, e si allargava a campana nella gonna. Lasciò la sua auto e montò sulla mia. Finimmo nel mio letto, e poi decise di portarmi al ristorante del fratello.
Difficile mangiare il “Riso amaro”. Da dove iniziare? Due nature di gusto si contrappongono come i colori. Il riso nero veicola un sapore di carne, molto forte, denso, che si accompagna a vegetali stracotti che incontri tritati tra i chicchi. Ogni tanto una scintilla d’amaro e poi una consolazione dolciastra. Pensavo a mia madre, che mi aveva allevato da sola, affrontando sacrifici e umiliazioni per mandarmi all’università. Dentro di me, fin da ragazzino covavo una rabbia sorda per quello che consideravo i fallimenti dell’immaginazione. Sognavo di essere diverso da quello che ero, più brillante, simpatico, vincente, ma ogni sera mi ritrovavo nella realtà della nostra misera casa. Amavo la musica, sapevo suonare, ma avevo dovuto studiare letteratura per diventare, nel migliore dei casi, un maestro di scuola. Il riso bianco profumava di mela, un gusto complesso nel quale però dominava la dolcezza e la una strana aspra sensualità; in quel gusto sentivo Sonia.
Sonia sarebbe partita l’indomani per l’Italia, e voleva assolutamente essere raggiunta; mi prometteva una vita fantastica. Aveva una tenuta in Toscana, vicino Punta Ala; Punta Ala…. Già quel nome era una promessa di leggerezza e cambiamento. Sarei partito tre settimane dopo, per sistemare le mie cose e, la sera della partenza, passai dal ristorante del fratello che mi offrì il suo Riso Amaro.
Avevo detto a Sonia che una metà del riso mi ricordava le promesse del nostro amore, mentre la parte scura era …… la mia parte scura. Mi aveva proposto di mescolare i due risi e che avrei provato qualcosa di particolare. In quella massa grigia dei risi mischiati il sapore di mela avvolgeva e nascondeva, lasciandoli in un fondo indistinto e lontano i sapori forti dei sughi del riso nero.
Ero in Taxi per andare all’aeroporto. Il tassista nero aveva messo la musica di un Rhythm and Blues che non conoscevo. Mi piaceva l’aria fresca della baia sul volto, e m’immaginavo il mare di Punta Ala. La musica andava, i semafori erano tutti verdi, per la prima volta l’immaginazione correva più veloce dei suoi fallimenti.
La botta fu tremenda, la macchina spostata di molti metri. Eravamo miracolosamente illesi; il tassista uscì sbraitando… dall’altra macchina uscirono tre ragazzi che passarono subito a vie di fatto con il tassista; uno di loro aveva un crick in mano…..
La polizia arrivò subito e interruppe la rissa e io riuscii a prendere un altro taxi, arrivando a tempo all’aeroporto.
Per il nostro ventesimo anniversario di matrimonio, come al solito, Sonia ha preparato il “Riso amaro”. Sono tornato da tempo a gustare i due risi in modo separato; non so ma sulla terrazza della nostra villa sul mare, sento che le differenze e i contrasti sono pacificati; provo le cose per quello che sono. Ho due figli bellissimi; la prima ha una galleria d’antiquariato molto accorsata mentre il ragazzo è un bravo pediatra. Un famoso regista che abita vicino a noi, ha sentito delle mie musiche (ho messo su un piccolo studio di registrazione), e mi ha chiesto di fare la colonna sonora di un suo film. Ho vinto un premio importante per quella musica che, inutile dire, si chiama Black and White Rice. Il riso nero è la vita così com’è, quello bianco come vorremmo che fosse, ma l’insieme, per dirla con Voltaire, è passabile.
La botta fu tremenda, la macchina spostata di molti metri. Eravamo miracolosamente illesi; il tassista uscì sbraitando… dall’altra macchina uscirono tre ragazzi e passarono subito a vie di fatto con il tassista; uno di loro aveva un crick in mano….. avevano l’aria di figli di Papà ubriachi. Non so ancora oggi dire cosa mi ha preso in quel momento. Ho disarmato quello del crick, mentre gli altri due scappavano inseguiti dall’autista nero. Ho cominciato a colpirlo e ancora colpirlo, e ancora colpi mentre era steso in terra, fino ad ucciderlo.
La polizia arrivò subito, ma non in tempo per evitare il peggio. Quel ragazzo era veramente un figlio di Papà; e che Papà! Suo padre era un noto senatore. Al processo per me non ci fu scampo; non potevo neanche permettermi un avvocaticchio di provincia. Condanna alla sedia elettrica.
Si sa, la condanna a morte non si esegue subito; passano mesi, a volte anni. In quel periodo non ho mai scritto a Sonia e non so cosa avrà pensato; forse avrà saputo da qualche amico comune la storia. Perché non mi ha scritto? Ma cosa si può scrivere ad un condannato a morte?
E ora eccomi qua, per l’ultimo pranzo prima della sedia elettrica. Ho fatto ordinare al ristorante “dal Guercio” un piatto di Riso Amaro, che ora è qui davanti a me. Ho le idee chiare su come mangiarlo. Ah! Dimenticavo. Da qualche mese ho chiesto a delle Dame di carità di avere un uccellino in cella. È un pettirosso bellissimo, pacioccoso e canterino. Gli ho parlato per giorni della mia vita felice e immaginaria in Toscana a Punta Ala.
Ora so bene come mangiare il riso. Quattro bocconi veloci per la parte nera mentre guardo la parte bianca intonsa. Sono venuti a prendermi. Apro la finestra della cella per un’ultima boccata d’aria e faccio a tempo ad aprire la gabbietta e a offrire dalla mia mano al pettirosso dei chicchi dolci di quel riso bianco
È volato sul tetto del carcere, mentre friggevo sulla sedia elettrica. Ora sta pensando come fare per arrivare in Toscana.
NOTA FINALE
A differenza dei precedenti articoli nei quali proponevo allo chef Salvatore di Meo di reinterpretare una ricetta del passato, in questo caso, ho chiesto a Salvatore di “inventare” una ricetta in base al racconto “Riso Amaro”. So che mi avrebbe sorpreso; alcuni anni fa, all’Istituto Francese di Napoli, organizzammo degli eventi dove si “cucinavano” i sentimenti. Salvatore fece, ad esempio, un piatto che “era” la Gelosia.
Intervista di Fabrizio Mangoni a Salvatore di Meo.
Nella ricetta allegata, Salvatore di Meo spiega i motivi che lo hanno portato a raccogliere la sfida e a creare un piatto coerente col mio racconto.
Riso amaro, piatto unico per due persone