Siamo 7,7 miliardi, tutti ospiti dello stesso pianeta: la Terra. Fra dieci anni saremo almeno un miliardo in più e per il 2100, secondo uno studio condotto dall’Università di Washington e dalle Nazioni Unite pubblicato su “Science”, potremmo raggiungere quota 11 miliardi.
Diecimila anni fa, prima ancora che la storia ci raccontasse di grandi imperi e schiavitù, quello che oggi chiamiamo in tanti casa, era un posto occupato da circa 4,4 milioni di abitanti, tutti in grado di attingere a una grande abbondanza di risorse.
Oggi, grazie al contributo della medicina moderna e quindi alla diminuzione delle morti infantili e quelle da malattie varie, ma anche grazie al progresso dell’agricoltura, rischiamo di essere tanti, forse troppi. Lo aveva previsto già nel 1978 l’economista inglese Thomas Robert Malthus.
All’epoca infatti pubblicò il suo “Saggio sul principio della popolazione e i suoi effetti sullo sviluppo futuro della società”, in cui sostenne che l’incremento demografico avrebbe spinto a coltivare terre sempre meno fertili, con conseguente penuria di generi di sussistenza per giungere all’arresto dello sviluppo economico, poiché la popolazione tenderebbe a crescere in progressione geometrica, quindi più velocemente della disponibilità di alimenti, che crescerebbero invece in progressione aritmetica.
Il problema dunque è semplice: la popolazione aumenta, le risorse diminuiscono. E se è vero che saremo così tanti, se avremo cibo a sufficienza, se lo otterremo in maniera più etica e sostenibile, questo dipenderà solo ed esclusivamente dai produttori e l’agricoltura sembra essere sulla buona strada.
Sovrappopolazione e nuovi modelli alimentari
Le nuove tecnologie in campo di strategie gestionali dell’agricoltura ci hanno infatti fornito la possibilità di adottare quella che gli anglosassoni definirebbero Precision Agricolture (PA).
Un’agricoltura precisa dunque, in grado di sezionare ogni campo in tanti piccoli campi, così da riuscire a comprendere cosa generi la variabilità di produttività e aumentare le prestazioni di ogni singola parte di terreno. Ma anche di risparmiare.
Perché non ci sarà bisogno per esempio di mettere la stessa quota di azoto in tutto il terreno se alcune parti ne avranno già abbastanza e si interverrà con gli agrofarmaci solo laddove sarà strettamente necessario generando, a fronte di una diminuzione del 37% dell’utilizzo degli stessi, un aumento dei raccolti di circa il 22%.
Secondo un documento del Ministero delle Politiche Agricole, in Italia nel 2016 circa l’1% della superficie agricola coltivata vedeva l’impiego di mezzi e tecnologie di Agricoltura di Precisione. L’intento è di raggiungere il 10% entro il 2021, con lo sviluppo di applicazioni sempre più rispondenti alle produzioni agricole nazionali.
La parola chiave è “more with less”, ottenere il massimo in termini di quantità e qualità in spazi sempre più piccoli e farlo in maniera sostenibile.
Bisognerà investire nella ricerca, creare sinergie fra ricercatori e produttori al fine di sperimentare e magari costituire nuove tipologie di cibo, in grado di resistere meglio ai cambiamenti climatici e di impattare meno sull’ambiente.
E’ il caso per esempio dell’azienda californiana Beyond Meat che ha già portato sul mercato la cosiddetta carne non carne. Una carne che sa di carne, ha l’aspetto e il sapore della carne, ma carne non è.
Nata dall’esigenza di combattere l’emissione di C02 nell’atmosfera, di cui la produzione di derivati bovini rappresenta una delle prime cause, l’idea di Ethan Brown, Evan Williams e Biz Stone, ha presto attirato la curiosità di investitori del calibro di Bill Gates e Leonardo di Caprio e potrebbe costituire una vera svolta in tema di tutela del pianeta.
Dopo aver analizzato attentamente le proprietà proteiche di alcuni vegetali, sono riusciti infatti a trovare l’abbinamento giusto fra amminoacidi, lipidi, minerali vitamine e acqua, che potesse sostituire definitivamente la carne diventando la proteina del futuro.
E poi c’è chi ha addirittura imparato a dissociare la produzione di cibo dall’agricoltura e dagli allevamenti, accostandola ai laboratori. Ricercatori e startup lavorano da anni per sviluppare proteine animali partendo da cellule staminali “cresciute” in laboratorio che condurrebbero in un arco di tempo che varia dalle 4 alle 6 settimane a un prodotto in grado di soddisfare oltre ai principi di sostenibilità, anche le esigenze vegetariane e i principi vegani.
Già nel 2017 Uma Valeti, Nicholas Genovese e Will Clem riuscirono a convincere Richard Branson, Bill Gates e la multinazionale statunitense Cargill ad investire 17 milioni di dollari nella loro azienda Memphis Meat, con l’obiettivo di rivoluzionare l’industria alimentare portando sulle nostre tavole carne artificiale entro il 2021. Sulla stessa lunghezza d’onda viaggia anche un’altra startup made in California.
In risposta a una recente relazione dell’ONU secondo cui il 90% degli stock ittici mondiali sarebbe eccessivamente sfruttato e l’aumento della produzione per soddisfare la crescente domanda di proteine animali non potrà avvenire in maniera sostenibile, Finless Food, sta tentando di applicare l’agricoltura cellulare per riprodurre carne di tonno in laboratorio.
Al di là dello scetticismo del consumatore, che ancora fatica ad immaginare di mangiare carne o pesce che non provenga da un allevamento ma da un laboratorio, è intrascurabile il fattore costi.
Questo tipo di tecnologie implica delle spese tuttora molto elevate, ma vale la pena far confluire le energie nella realizzazione di questi progetti perché entro il 2050, dati FAO alla mano, il fabbisogno alimentare aumenterà del 70% e per garantire una dieta equilibrata a tutti, servirà un incremento della produzione di proteine dell’80%.
Considerando che ad oggi sono già più di 820 milioni le persone che soffrono la fame, e che la capacità produttiva in laboratorio è potenzialmente illimitata, una riduzione dei costi e la conseguente accessibilità del prodotto su scala mondiale, saranno fondamentali per sostenere le nuove sfide per il futuro dell’alimentazione umana.
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