di Fabrizio Mangoni
È questa una storia di tamburi. La parola Timbale, in francese, definisce varie specie di tamburi. Ma anche la versione napoletana del Timpano ricorda il Timpanon, rappresentato nelle pitture antiche, che è un antesignano della Tammorra, quel tamburo circondato da sonagli che accompagna le Tammuriate, classica forma della musica popolare napoletana. Qui però non parliamo di musica, ma di cucina. Il Timballo è un classico della cucina italiana e francese che certo ricorda il tamburo; un contenitore, quasi sempre cilindrico, che ospita una farcia fatta in base a varie ricette. Ma l’aspetto più interessante di questa storia di tamburi mangiabili, è che si tratta di ricette “viaggianti” tra la Francia, l’Italia e, in particolare, Napoli, con biglietti continui di andata e ritorno, basati su reciproche influenze.
Per raccontare questa storia partiamo da una ricetta, che non è né la prima, né l’ultima, ma è significativa come guida del nostro racconto. Viene dal libro Le Patissier Royal, di Antonin Carême, uno dei più grandi cuochi di tutti i tempi, pubblicato a Parigi nel 1815. Lì troviamo la ricetta del fantastico Timballo alla Parigina, una ricetta molto lunga e complessa.
TIMBALLO ALLA PARIGINA
Ricetta:
Prendete circa 250 gr di pasta Italiana, che sia la più lunga possibile; fatela cuocere nell’acqua bollente con un po’ di sale e del burro. Fatela cuocere dolcemente a fuoco basso e, appena cotta, scolatela. Quando sarà sgocciolata, metterete i maccheroni in fila su un panno. Imburrate uno stampo con burro di gamberi ben rosso (si tratta di un burro che contiene i carapaci dei gamberi tritati e la carne di gambero pestata, passato alla fine ad un setaccio, ottenendo un burro colorato di rosso), al fine di colorare i maccheroni, che piazzerete formando come una spirale di una lumaca. Asciugate completamente i maccheroni facendoli rotolare sul panno, e tagliate le loro punte ad angolo retto, in modo che ogni maccherone sia la continuazione del precedente. Ricoperto con i maccheroni il fondo e il primo bordo dello stampo, riempite di un pollice di eguale spessore di farcia alla quenelle di selvaggina, un po’ più solida del solito, e così seguitate a nascondere il bordo con la farcia di uguale spessore; ma il punto essenziale è di non disallineare i maccheroni del bordo, altrimenti il timballo sarà di brutto aspetto, perché tutto il merito di questa deliziosa entrée, è nella riuscita di questa parte della preparazione. Poi riempite il timballo per circa due centimetri di fettine sottili di filetti di uccelletti, di pernici rosse, di fagiani o di conigli selvatici, con tartufi o funghi, con salsa spagnola e fumetto di selvaggina. Questo ragù deve essere messo a freddo. Lo nasconderete in questa maniera: formate su un cerchio di carta imburrata, un cerchio di farcia di circa 15 centimetri di diametro e di 2 centimetri di spessore; allora girate la carta, piazzando la farcia sul ragù e, per staccarla dalla carta, poneteci sopra per un secondo soltanto un coperchio di casseruola caldo. Appena il burro è fuso, voi staccate attentamente la carta e con la punta di un coltello saldate la farcia di fondo con quella sui bordi dello stampo. Finito di formare il timballo, lo piazzate in una casseruola, piena d’acqua bollente e lo fate cuocere a bagnomaria. Fate attenzione che l’acqua non deve bollire durante la cottura, che durerà circa un’ora e un quarto. Al momento di servire. Mettete il piatto di portata sullo stampo, che capovolgerete. Dopo averlo staccato dalla forma il timballo si presenterà con tutta la sua bellezza con una tinta chiara e rossastra. Servite subito. Questa entrée esce chiaramente fuori dalla categoria delle entrate ordinarie.
Questa ricetta ci racconta molte cose. Innanzitutto avrete notato che il cuoco Carême raccomanda l’uso di pasta italiana; in quegli anni la Francia aveva cominciato a produrre la pasta, mettendo in crisi le esportazioni delle paste italiane prevalentemente genovesi e napoletane. Ma molti cuochi osservarono come la pasta francese fosse più rugosa e tendesse a sfaldarsi e a perdere forma in cottura. Per avvolgere il Timballo con un bucatino che, come una spirale continua, chiudesse la cupola esterna, era necessaria la più resistente pasta Italiana. Il secondo aspetto, è la ricerca della monumentalità della presentazione tipica dell’epoca e della cucina di Antonin Carême. Gli arrosti o i pesci, ad esempio, erano presentati con degli spiedini infilzati (gli Hatelet), con gamberi, ortaggi colorati, polpettine ed elementi decorativi in pane colorato. Così una semplice portata assumeva una nobilitazione architettonica per essere ammirata al centro tavola. Analogamente questo timballo a cupola era destinato a trionfare tra le Entrèe del banchetto. Infine, la ricetta ci sorprende, in quanto avremmo immaginato una cottura finale al forno, per rendere croccante il bordo di maccheroni. Invece Carême ci propone una lunga cottura a bagnomaria, che consente un maggiore controllo dell’esposizione al calore, tanto del contenitore di pasta che della farcia e della salsa interne. Così il cuoco ottiene anche un secondo scopo: quello di colorare delicatamente di rosso i maccheroni col burro di gamberi.
Il nome “Timballo alla Parigina” corrisponde in realtà all’appropriazione di un tipo di Timballo che avremmo più propriamente dovuto definire “Alla Napoletana”. Per comprendere bene questo passaggio dobbiamo risalire all’origine della parola e del piatto. La parola è francese e, all’inizio, designava una cosa che non aveva niente a che fare con la cucina. Era un bicchiere d’argento, di forma cilindrica, con iscrizioni, stemmi, e decori, che si utilizzava come dono e si chiamava Timbale, sempre per la somiglianza col tamburo. Intorno al XVIII secolo, questo contenitore metallico, liberato dalle sue decorazioni e cambiando materiale (prevalentemente in rame), sembrò molto utile per cuocervi i Patè, immerso nella cenere. Poi si è cominciato ad utilizzare un cilindro esterno di pasta frolla decorata, da riempire con diverse farce a base di carne, selvaggina e salse varie. Veniva cotto al forno e il cilindro, frutto del lavoro della corporazione dei Pasticceri, se particolarmente bello nelle decorazioni, veniva anche, una volta usato, grattato internamente e riutilizzato per nuove farce preparate dalla corporazione dei Cucinieri o dei Rosticceri.
È questo il Timballo che fa il primo viaggio tra la Francia e l’Italia, in particolare a Napoli, portato dai cuochi francesi dei primi Re Borbone; Vincenzo Corrado che collabora con le cucine del Principe di Francavilla, una sorta di Principe di Condè napoletano, che dava memorabili feste, propone nel suo ricettario un nuovo tipo di Timballo, adattato alla cultura napoletana. Leggiamone la ricetta dal suo trattato Il Cuoco Galante, pubblicato a Napoli nel 1773.
TIMPALLO DI MACCHERONI AL SUGO
La pasta dei Timpalli è la pasta sfoglia o la mezza frolla senza zucchero. I maccheroni, rotti alla lunghezza di mezzo dito, cotti in brodo e fatti raffreddare fuori dal brodo, si condiscono con denso e grasso sugo di carne di Manzo e di Porco, e si dispongono nella cassa di pasta entro di una ben proporzionata cassarola, ma ben incaciati e tramezzati di un Ragù di salcicce, di animelle, di prosciutto tagliato a filetti. Si coprirà alla fine con la pasta e si fa cuocere al forno il già formato Timpallo e si servirà caldo.
La ricetta ci racconta di un Timballo francese, “napoletanizzato” da un ripieno di pasta al sugo di carne. Quest’adattamento deriva dal fatto che le famiglie nobili napoletane subiscono il fascino della cucina francese, ma difficilmente rinunciano alla pasta, magari condita con salse francesi. Il Timballo, che prende anche il nome di Timpallo o Timpano, si è riempito così di maccheroni. Ma la novità è che in qualche ricetta, Corrado rinuncia alla cassa di pasta frolla, come nella ricetta del Timballo di Lagane (lasagne) al prosciutto, che vengono a formare il bordo del Timballo. In altri casi sarà la pasta in forma di gnocchi ripieni che formerà il bordo del Timballo.
Quest’idea del timballo con la pasta affascinerà la cucina francese dell’Ottocento, che troverà nei maccheroni e nei suoi vari formati, come nel Timballo parigino di Carême, notevoli qualità decorative. Se ne faranno con bordi di anellini di pasta o con candele di pasta disposte in piedi sui bordi. È interessante ricordare che in Francia, col tempo, si rinunciò alla cassa esterna fatta di maccheroni, utilizzando dei cilindri in ceramica, che riportavano sulla superficie la forma e la memoria dei maccheroni allineati.
Il Timballo parigino ritornerà in Italia. Nel manuale di cucina di Giovanni Vialardi, cuoco di casa Savoia, pubblicato a Torino nel 1854, troviamo vari Timballi, tra cui quello alla Napoletana, fatto con la pasta nella cassa di Pasta frolla, però dolce come ancora oggi si usa a Napoli, e il Timballa (con la a) di Maccheroni all’antica. Come quello parigino, è fatto con un Maccherone (di pasta di Napoli suggerisce) che gira torno torno ad uno stampo sferico. A differenza del timballo francese contiene la pasta, ma condita con una salsa spagnola e con i tartufi, come il Timballo d’oltralpe. Vialardi introduce un’importante novità estetica: alcune file di maccheroni del bordo sono colorate con lo Zafferano, realizzando fasce alterne bianche e gialle. Il Timballo parigino lo ritroviamo a Napoli, preparato dal famoso Monsù Gerardo, col nome Flammand; viene descritto nel volume sulla Cucina Napoletana Aristocratica di Franco Santasilia di Torpino (Grimaldi editore). C’è il bucatino che contorna lo stampo a cupola e la farcia è chiaramente d’ispirazione francese. È composta da funghi, tartufi, carne di vitello, prosciutto, lingua salmistrata, petto di pollo con una salsa di carne. Non ci sono dentro i maccheroni che restano solo sul bordo. Quindi il Timballo di Carême, un secolo dopo, è tornato ad ispirare i cuochi napoletani, persino col suo nome “Flammand” dovuto probabilmente alla memoria di quel colore rosseggiante, tanto raccomandato dal grande cuoco. All’inizio del ‘900 il Timballo “salato”, sparisce dall’alta cucina francese, e viene relegato alla pasticceria.
Questa lunga storia di viaggi e di scambi si conclude con le due ricette che lo chef Salvatore di Meo, propone in questo stesso numero della rivista. Rappresentano, a mio avviso, l’ultima meridionalizzazione del Timballo. Innanzitutto ci propone il Timballo Flammand in una versione monoporzione. Si crea così un maggiore equilibrio tra contenitore e farcia. Come contenuto del primo prevede una pasta al sugo con le melanzane d’ispirazione siciliana, e per il secondo un classico della cucina napoletana fatto di salcicce e friarielli. Li ho provati e vi garantisco che sono un magnifico approdo di questa lunga storia.