Quando iniziarono a produrre olio dai semi negli anni ’50 del secolo scorso, l’olivo perse momentaneamente la sua magica importanza. Non bisognava più invocare le buone annate per avere prodotto, era sufficiente seminare e raccogliere mais, girasole e soia per estrarre chimicamente tutto l’olio che si voleva a poco prezzo.
Per un ventennio anche i medici raccontarono al mondo che dal cuore dei semi si estraeva olio che faceva bene al cuore degli uomini. Ma le grandi bugie preparano sempre a grandi rivoluzioni e l’olio da olive, che di rivoluzioni le aveva viste fare ad altri, si preparò a fare la sua.
La scienza finalmente proclamò “l’olio extravergine di oliva” come “alimento nutraceutico”, faceva bene alla salute aiutando a prevenire una serie di malattie cardiovascolari e tumorali.
L’olio extravergine di oliva italiano e la sfida della “modernità”
Era l’11 luglio del 1991 quando la comunità europea emanò un regolamento che stabiliva che l’olio per essere dichiarato extravergine non doveva avere difetti organolettici, doveva ricordare all’olfatto il profumo dell’oliva e avere sensazioni gustative di amaro e piccante. Quello è stato un punto di non ritorno che ha innescato una rivoluzione, anche se lenta e forse troppo silenziosa.
Si cambiarono molte abitudini. Il grado di maturazione, i tempi di raccolta, i contenitori per le olive, la sanità dei frutti, la pulizia dei frantoi, i tempi e le temperature di estrazione, la conservazione in magazzino, il consumo entro l’anno di produzione.
Abbiamo assistito alla nascita di nuove industrie in grado di fornire cisterne di acciaio, bottiglie di ogni forma e colore, tappi super sicuri, macchinari d’estrazione super tecnologici.
I grafici hanno lavorato a una nuova immagine dell’olio, moderna e pulita, senza mai perdere di vista la storia dei luoghi di produzione e degli uomini. Gli architetti hanno dato uno stile ai frantoi. Sono nate oleoteche esclusivamente dedicate alla vendita di olio. Si sono addestrati i comunicatori facendoli prima diventare buoni assaggiatori. E’ partita una inarrestabile macchina dei concorsi, dove ogni anno sfilano gli oli migliori del mondo. Si scrivono guide di ogni genere che raccontano storie di aziende e ci indirizzano verso acquisti consapevoli. Peccato che nonostante tutto questo la dimensione del settore olivicolo italiano si sia ridotta anziché aumentare. Ogni anno assistiamo ad un numero crescente di oliveti, ormai obsoleti, che vengono abbandonati perché ingestibili e non più remunerativi.
Peccato che l’Italia non abbia mai dedicato risorse e linee guida alla coltivazione dell’olivo, come invece è successo in molti altri paesi mediterranei e del sud del mondo. Timidamente e scontrandosi con la miope opinione olivicola diffusa in Italia, alcune aziende hanno intrapreso la strada del nuovo, adottando nuovi sistemi di coltivazione, nuove varietà, utilizzando nuovi terreni, introducendo l’irrigazione, meccanizzando il sistema di coltivazione.
E’ da quarant’anni che perdiamo produzione mantenendo alti i costi. Siamo disposti a cambiare qualsiasi cosa dalla raccolta in poi, ma guai a parlare di nuovi impianti. Il paesaggio olivicolo tanto invocato, sta assumendo l’identità del bosco, soprattutto in quelle aree del sud dove l’olivo regnava sovrano e dove oggi non è più presente manodopera. Siamo riusciti a stupire il mondo producendo grandi oli moderni, riusciremo a salvare la nostra olivicoltura?
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